Un libro pieno di parole inventate, e inventate solo per giocare. Storie di giochi di parole, giocati con i lettori di un supplemento culturale in un'epoca non molto remota ma in cui pure ci si scriveva ancora tramite francobolli e non con i clic.
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La storia di uno strumento per stivare una vacca su una vacca, o anche su un cavallo, che si trova ad avere non uno ma due nomi perfettamente reversibili e leggibili anche da destra verso sinistra: accavallavacca e accumolomacca. Parole brutte, parole lunghissime, parole enigmistiche, parole che contengono lettere in ordine alfabetico, nomi chiusi in un lucchetto, sillabe ripetute per balbuzie volontaria, parole mancanti, parole equivocate, coppie di parole simili ma di significato opposto, un blablabla inesausto incominciato nel 1987 e tuttora in corso. Sono giochi, o giochini, vivono proclamando la loro inutilità. Frivoli eppure necessari: così come a una lingua che non ha alcuna parola per sintetizzare Ma nessuna parte" occorrerebbe il frivolo avverbio novunque. Tutto questo brusio di fonemi sfaccendati si rapprende, a tendere l'orecchio, attorno a testi che non hanno altra ambizione che quella di far passare il tempo architettando trabocchetti in cui far cadere la nostra noiosa vocazione a dire solo cose sensate. Giochi allegri, allora, per riscattare la malinconia dell'aver ragione, uno stato d'animo paragonabile a quello dell'attore o attrice orientale di cui in una di queste pagine ci parla un bel gioco poetico di Beppe Varaldo:
MAR DI MARMARA
Nel bar barbaro,
la star tartara
d'amor mormora.