Si è soliti ritenere che Pier Paolo Pasolini fosse un abile opinionista e un pigro giornalista d’inchiesta; che le sue fonti fossero gli articoli altrui o che andasse in giro a fare domande da evitare, esponendosi ingenuamente a rischi eccessivi.
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Al contrario, Pasolini sapeva utilizzare fonti “basse” e fonti “alte”, orali e scritte, aperte e riservate, documenti e dossier di cui ha fatto largo uso nei suoi articoli e in romanzi in fieri come Petrolio. Di certo quel suo modo troppo esibito di fare inchiesta e la possibile divulgazione di informazioni – sgradite a taluni – in giornali e in romanzi possono averne provocato la morte violenta (ai possibili scenari del suo omicidio all’Idroscalo di Ostia si dà spazio nella seconda parte di questo libro). In un grande artista tutto sta insieme. E di conseguenza gli interventi giornalistici dello scrittore e regista sono a volte assimilabili a quelli cinematografici, poetici e narrativi: cambia la cifra linguistica, ma il motivo di fondo, pur tra luci e ombre, rimane la critica alla società italiana del suo tempo, al neocapitalismo, allo sviluppo senza progresso, allo scempio urbanistico, alle merci come feticcio omologante, al conformismo che annulla le differenze. Pasolini ha fatto giornalismo anche stando dietro alla macchina da presa: lo vediamo in film-inchiesta come Comizi d’amore (girato nell’estate del 1963, è uno scavo su cosa pen sano gli italiani del sesso e dell’amore al tempo del boom eco nomico); o come 12 dicembre, un docufilm del 1972 sulla strage milanese di piazza Fontana e sulle lotte operaie di quegli anni. Nell’opera di Pasolini andrebbe dunque riconsiderata quella che lui stesso chiama la «questione sociale», ben più importante, dice lo scrittore, di «aspetti secondari come quelli del linguaggio, o della crudezza che c’è nella mia verità».